Articoli su Giovanni Papini

1932


Luigi Tonelli

Cinquant'anni di Papini

Pubblicato in: Nuova Antologia, anno 67, fasc. 1458, pp. 466-480
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Data: 16 dicembre 1932



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   Giovanni Papini ha compiuti, parecchi mesi fa, cinquant'anni. Chi se n'è ricordato?
   Altrove, specialmente in Germania, anche per autori di fama non grandissima, si sogliono celebrare certe date, certe ricorrenze, con frequenza, che non ne diminuisce la solennità: si ripubblicano le «Opere complete» in speciale edizione, si stampano biografie e saggi sull'autore, e interviste, fotografie, indiscrezioni, magari banchetti...
   In Italia, poco o nulla di tutto ciò; e, forse, non è gran male. Ma nel caso di Papini, scrittore in piena attività, e ben lontano dall'essere giubilato, sulla breccia da trent'anni, e non estraneo alle influenze subite dalle nuove generazioni; rifare criticamente la sua storia, non significa soltanto avere l'opportunità di correggere certi errori di prospettiva, tirare le somme, e giudicare più equamente le singole opere attraverso una visione complessiva, ma anche prepararsi a intendere meglio la storia spirituale d'Italia, per un periodo abbastanza vasto e importante. Aggiungete che Papini è passato per tre fasi d'arte e di pensiero, di cui anche la terza pare ormai chiusa; e che, pur sperandosi e attendendosi una nuova fase, magari più profonda e significativa, è permesso parlare di quelle, come di cicli compiuti, e però dare un giudizio, che possa aspirare all'esattezza e all'equità.

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   Papini è stato, nell'intelletto e nella sensibilità, un precoce. Ciò che, qua e là, e specialmente in Un uomo finito, egli ci ha narrato della sua fanciullezza, povera, triste, meditante, e della sua adolescenza, abbeverata di sogni enormi e di precipitose rinunzie, di orgogli folli e di atroci umiliazioni, ha troppo l'accento della confessione sincera, perché possiamo minimamente dubitarne.
   Poco più che ragazzo, egli aveva già fatte tante esperienze cerebrali e spirituali, quante un uomo comune non riesce, talvolta, a farne in tutta la vita. Pessimista assoluto, in un primo tempo, pur con una disperata, segreta avidità d'amore; poi, idealista sino al solipsismo («il


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mondo son io»!); quindi, scettico radicale, sino al solipsismo morale («nulla è vero; tutto è permesso»). Quando fonda la rivista Leonardo, ha appena ventidue anni; ma è già qualcuno, che può veramente dirigere, consigliare, ammonire, imporre la sua originale personalità.
   La sua originalità non consiste tanto in quello che dice, quanto nel pathos, che mette in ciò che dice, nel tono, nell'accento, con cui lo dice. Pagano, individualista, idealista, come il programma di Leonardo, al primo numero, annunziava? Magico, esoterico, mistico, occultista, nel suo particolare pragmatismo, quando, abbandonato dallo stesso Prezzolini, rimase solo a redigere la battagliera rivista? Nutrito di Berkeley e Schopenhauer, di Nietzsche e Stirner, di Bergson e James; satollo di Stendhal e Baudelaire, di Verlaine, Rimbaud e Maeterlinck, di Goethe e Novalis, di Carlyle, Poe e Withman, di Ibsen e Ruskin, di Tolstoi e Dostojewski; Papini non annunziava una parola veramente nuova, d'arte e di pensiero. Rileggendo Ventiquattro cervelli, uscito nel '12, ma composto in gran parte d'articoli, scritti nel primo affacciarsi alla vita letteraria; vi si trova, infatti, la documentazione delle sue simpatie e antipatie intellettuali (fra quest'ultime, notevolissima quella contro Locke, Spencer, Ardigò, Enrico Ferri, ossia contro il materialismo agonizzante, e il positivismo e il sensismo, da cui esso derivava); vi si notano affermazioni interessanti (amore per il puro sogno e l'irrealtà estetica e metafisica; esortazione a crearsi una vita bella, ricca, segreta, tendente in ogni istante a superare se stessa; ripudio della filosofia pura; esaltazione del Medio Evo, a detrimento del Rinascimento; richiesta d'un accordo fra la vita e la poesia...); ma nessuna scoperta ci colpisce, nessuna interpretazione profonda e radicalmente nuova ci sofferma. Ciò che veramente c'interessa, è l'ardore, con cui Papini esalta, o stronca; la violenza, con cui odia o ama; l'eloquenza, evidentemente sincera, in cui s'esprime; e insomma lo spirito, o stile, dello scrittore. Si sente sùbito che abbiamo dinanzi, non un puro letterato, ma un uomo.
   Un uomo di grande ambizione: non per far quattrini (per quanto della miseria avesse sofferto); nemmeno per diventar celebre, per la celebrità in se stessa; ma per agire, effettivamente e profondamente, sul l'animo, sulla cultura, sulla civiltà dei contemporanei, allo scopo della creazione, mistica e magica, dell'«uomo nuovo». Papini non l'ha mai confessato; ma credo che l'esempio, tragico e sublime, di Nietzsche abbia avuta un'enorme influenza sulle ambizioni e sui programmi della sua giovinezza, tanto più che il Fiorentino poteva, di fatto, lusingarsi di possedere tutte le qualità del Tedesco: spirito poetico e ingegno filosofico, capacità di satira, ferocemente fustigatrice, e d'esaltazione entusiastica, misticamente ebbra. Il suo «uomo nuovo» non ci rammenta il «superuomo »? E che importa se il Nietzsche delle ultime opere, e,


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tanto peggio, il Nietzsche dell'interpretazione dannunziana, provocasse, nello stesso Papini, proteste e contumelie? «Noi tutti abbiamo un debito di amore verso Federico Nietzsche, ed è tempo di pagarlo»: scriveva Papini, in un appassionato articolo del '10. Ed era una confessione.
   Senza averne, forse, piena coscienza, Papini volle essere, in condizioni di tempo e luogo estremamente diverse, un secondo e ben più fortunato Nietzsche. Vi fu un momento — se quel che si narra in Un uomo finito non è una pura invenzione — che egli persino si preparò a discendere dalla montagna, come Zarathustra, per annunziare il verbo novello... Delusione, riconoscimento della propria impotenza, crisi terribile, malattia: in realtà, Papini non possedeva la potenza spirituale d'un Rivelatore, e nemmeno d'un mezzo rivelatore, quale il nietzschiano Zarathustra.
   Pure, delusa la sua più alta, e diciamo anche la sua più folle, ambizione, e giudicando l'opera papiniana del primo periodo, dal Leonardo ('03) a Un uomo finito ('12), sotto il riguardo del pensiero e dell'arte, ch'erano insomma gli strumenti più veri e umani, di cui Papini disponesse per realizzare la tanto bramata «fuga dalla realtà»; possiamo noi, in coscienza, dare interamente ragione a lui stesso, quando riconosce a se stesso «un eterno slancio verso il tutto, per ricascare nel nulla»; e ammettere che, di fatto, di quel decennio tempestoso non sia rimasto nulla? Possiamo cioè concludere che il pensiero papiniano, condensato in Crepuscolo dei filosofi ('06), L'altra metà ('12), Pragmatismo ('13), e l'arte papiniana, espressa nei volumi Il tragico quotidiano ('06), Il pilota cieco ('07), Parole e sangue ('12), lasciando stare le cose minori (come Maschilità), e ripudiate dall'autore (come Memorie d'Iddio e La vita di nessuno); possiamo concludere, dico, che quel pensiero e quell'arte siano ormai morti e sepolti?
   Crepuscolo dei filosofi — lo conferma lo stesso giovanissimo scrittore — «non è un libro di buona fede», ma è «un'opera di vita». È un pamphlet brillantissimo, che dimostra nell'autore il lettore appassionato di Montaigne, Diderot, Voltaire, Remy de Gourmont, e di qualche polemista nostrano; ma anche, e soprattutto, «un'autobiografia intellettuale», il compendio d'un periodo tutto dedicato «alla polemica e all'assalto». Come, infatti, pensare che Papini s'illudesse sul serio di demolire e stroncare i maggiori filosofi moderni, con una trentina di paginette per ciascuno, definendo Kant semplicemente come un borghese onesto e ordinato; Hegel, come un negromante incantatore, un poeta foderato di borghese, un romantico che vuol uscire dal romanticismo, un ciarlatano coscienzioso; Schopenhauer, come il filosofo della vecchiaia, un geloso, un pessimista per burla; Comte, come un messia che ha studiato matematiche; Spencer, come un meccanico disoccupato;


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Nietzsche, come un debole e malato? — Non dico che non vi siano, qua e là, confutazioni acutissime e interpretazioni geniali; ma è evidente che il valore del libretto sta nell'atteggiamento negativo e repulsivo dello scrittore, di fronte alla filosofia: quella filosofia, che era stata il suo amore, la sua passione, il suo culto d'adolescente, e che, dopo la delusione amarissima (aveva creduto di conquistare la Verità, e non aveva trovato che cento e mille, piccole, insufficienti, verità!), era diventata il suo odio. Fatto personale, vissuto intensamente e intimamente; ma che rientrava perfettamente nel quadro del pensiero contemporaneo, allorché appunto, morti i grandi Maestri dell'Ottocento, agonizzando il positivismo materialista, non si aveva più fiducia nei grandi sistemi metafisici, né nell'Assoluto trascendentale, né nella Verità trascendente, e non si vedeva altra via di scampo, se non nel pragmatismo americano del James.
   Vero è che il bergsonismo non era lontano dal trionfare e diventare addirittura di moda, e che l'idealismo stava facendo le sue prime prove col Croce; ma Papini, se mostrerà qualche simpatia verso il primo, pel suo carattere intuizionistico, aborrirà dal secondo, pel suo carattere razionalistico e panlogistico; e, in ogni modo, credette che il meglio fosse accogliere il pragmatismo, colorandolo per conto suo di psicologismo e magismo, direi quasi di misticismo. Ed effettivamente, nello stesso Crepuscolo dei filosofi, non mancano pagine che, in mezzo a tanto scetticismo e furore di demolizione, dimostrano senso del divino e comprensione della religione. Con che passione, per es., dimostra come lo Spencer non abbia mai provato quel senso di una presenza superiore, invisibile, ma certa; quel sentimento di accordo con l'universo, di una sicurezza indicibile; quella certezza del meraviglioso, dello straordinario; quella fede nella realtà di un mondo più grande e vero del mondo attuale; quell'eccitamento a una vita più pura, più seria, più in «alto stile», che costituisce lo «spirito religioso»! Ma, ancor più e meglio, appare codesto carattere magico-mistico del pragmatismo papiniano, negli articoli, scritti poco prima e poco dopo il Crepuscolo dei filosofi, e più tardi raccolti nel volume Pragmatismo: dove appunto, scagliandosi contro la metafisica, e invocando l'azione per aumentare la potenza, ammette che il pragmatismo può condurre anche al misticismo, vagheggia e sogna la creazione d'un Uomo-Dio, che operi trasformazioni cosmiche mediante modelli, dati dall'arte, dalle religioni, dalle metafisiche, dalle scienze immaginarie; e finisce col confessare che egli accetta e pratica la teoria, per cui «è preferibile il rischio di una scelta attiva alla scelta passiva e implicita dell'inazione scettica o agnostica», e che ha creduto «finora» che la fede crei la sua verificazione, ossia ha arrischiato «di credere» nel potere creativo della credenza, per ottenere


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che questo potere realmente «operasse». Poco male se, poi, anche pel famoso Will to Believe, era ricaduto nel dubbio...
   Io vado più in là, e dico che pure L'altra metà, che dovrebb'essere la testimonianza del più desolato scetticismo, del più radicale nichilismo intellettuale e morale, l'autore, difendendo ed esaltando, come un advocatus diaboli, i meriti del nulla, del diverso, dell'impossibile, dell'ignoranza, dell'errore, della pazzia, dell'inattività, del male, dell'inutile; anche questo libro finisce con l'essere, paradossalmente, un'affermazione di fede: «...Eppure — confessa lo stesso scrittore, al termine del libro — quanta fede v'è in questa miscredenza, quanta speranza in questa disperazione, e quanta tragicità in questa pagliacceria! V'è la tragicità di chi vorrebbe credere e non può, di chi ama la verità, più di se stesso e non la trova...». È forse troppo presto dire, a questo punto, che Papini non avrebbe cercata la Verità, se non l'avesse trovata?
   Comunque, se il merito del Crepuscolo dei filosofi sta nell'essere soprattutto una confessione spirituale. quello de L'altra metà consiste nell'essere una brillante fantasia metafisica, rivelatrice d'uno stato d'animo, amareggiato dalle delusioni, e tormentato da un disperato desiderio di fede: confessione e stato d'animo, che vengono illustrati dai saggi di Pragmatismo. E però, almeno i due primi libretti si rileggono oggi con piacere, e sono ancor vivi, sentendosi in essi gli accenti della sincerità, le voci profonde d'un'anima giovanile.
   La quale, tuttavia, non poteva appagarsi di pensiero, e doveva aspirare all'arte — anche in coerenza con la sua teoria della «fuga dalla realtà» —; ed ecco Il tragico quotidiano, Il pilota cieco, Parole e sangue... Ma che cosa precisamente sono i componimenti, raccolti in questi volumi, e particolarmente nei primi due, di cui il terzo appare una stanca, inutile ripetizione? Novelle, o elegie, o colloqui, o favole filosofiche, o fantasticherie liriche?... Neppure Papini saprebbe dirlo. Comunque, nel Tragico quotidiano, ciò che mi sembra più vivo, non sono le fantasie paradossali (un po' sul genere del Poe e dell'Isle-Adam), che ci offrono interpretazioni sorprendenti del peccato d'Adamo, delle colpe di Don Giovanni e dell'Ebreo errante, o ci presentano situazioni inaudite, come nel diavolo tentato, nella realtà d'una creatura di sogno, nell'arresto, per l'eternità, del mondo in un certo momento; bensì quelle confessioni, appena larvate da personaggi fittizi o poetici, e da racconti immaginari, per cui entriamo nella stessa intimità papiniana. Il tormento del pensiero, e la volontà anelante d'azione; la solitudine amara e orgogliosa, in mezzo a un mondo che non può comprenderlo, e il disgusto dell'umanità, con l'impossibilità d'abbandonarsi ed amare; l'orrore della mediocrità, e il desiderio di sperimentar tutto, e di risvegliarsi, ogni mattina, sempre nuovo e diverso; tutto questo, ed altro, è nel Tragico quotidiano,


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il cui titolo maeterlinckiano sarebbe così bene sostituito da un altro: Il tragico papiniano.
   Analogamente, ciò che mi sembra più notevole nel Pilota cieco, non sono le bizzarrie, per cui, per es., s'immagina che l'invenzione artistica coincida, inconsapevolmente, con una precisa realtà; che un uomo noto diventi, per un certo tempo, sconosciuto a tutti; che un altro si dia la morte, mediante il solo pensiero, ecc.; e neppure, certe storie patetiche e romanzesche, sul tipo del «giorno di giovinezza non restituito», bensì certe pagine liriche, in cui vibra un gran desiderio d'amore, o palpita lo sbigottimento dinanzi al mistero del mondo.
   Se, dunque, nei libri di pensiero si sentiva la «confessione», a maggior ragione la si riconosce in quelli di arte; e insomma, fra gli uni e gli altri, non c'è una sostanziale differenza, i primi essendo artisticamente atteggiati, e i secondi intrisi di pensiero. Si direbbe che il Papini fosse ancora incapace di scrivere un'opera di puro pensiero, o di pura arte; ma certo, in tutt'i suoi libri, è già presente, ed evidente, una personalità, ricca di passione e genialità, altamente ambiziosa e profondamente inquieta, che prende la vita sul serio, anzi sul tragico. Il suo pathos non è falso; il suo riso sghignazzante cela una smorfia dolorosa; il suo tormento è autentico. Egli è diabolico e angelico; superbo e umile; inebriato e disperato. Un uomo finito ('12), che segna l'epilogo ed esaurimento di questo primo decennio d'attività papiniana, conferma la nostra analisi, con una confessione piena ed intera, un'autobiografia lirica di suggestiva potenza, una bella e perfetta fusione di pensiero e di arte.
   Libro di sconforto e di depressione? — Si, se si pensa al folle programma papiniano della «creazione dell'uomo nuovo», necessariamente fallito; no, se si considera la nuova, rassegnata e pur energica accettazione della vita, come possibilità di beneficare almeno un giovine, scoprendosi per primo «l'amaro sapore della grandezza e la gioia febbrosa della poesia»; inoltre, come ricerca di se stesso, e come prova della propria forza. Non per nulla, infine, dopo aver confessato di non essere né negoziante, né filosofo, né santo, bensì un poeta e un distruttore, un fantastico e uno scettico, un lirico e un cinico insieme, e dopo aver affermato di sentirsi soprattutto toscano, attaccato e radicato alla terra toscana, continuatore della tradizione letteraria toscana, proclama di non essere un uomo finito: «Il meglio vien ora: io nasco soltanto oggi».
   Un uomo finito è stato giudicato un capolavoro. Certo, è il capolavoro papiniano di questa prima fase di giovinezza: giacché tutt'i materiali, reali e fantastici, filosofici e artistici, sparsi nelle altre opere dello stesso periodo, vi si ritrovano, fusi e potenziati da una magnifica foga; e il protagonista è una creatura indimenticabile d'arte e di vita, entro


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un'atmosfera di rievocazioni, quasi allucinanti; e il racconto delle sue drammatiche avventure, intellettuali e spirituali, procede sempre più intenso, prendendoci e appassionandoci indicibilmente. D'altra parte, a ben considerare, questo è il primo vero libro, organico e compiuto, scritto da Papini, gli altri non essendo stati se non raccolte di saggi e articoli, sia pure organizzate intorno a nuclei precisi d'idee.
   Ma, capolavoro assoluto, non direi: per esserlo, manca d'universalità, essendo la storia spirituale d'un temperamento e d'un ingegno troppo eccezionale; manca, sotto il riguardo del pensiero, d'un'idea centrale, veramente grande; e, sotto il riguardo dell'arte, d'un mondo obiettivo, vario e pittoresco, tutt'i personaggi, tranne il protagonista, non essendo che fantasmi

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   Che non fosse «finito», Papini dimostrò, non tanto con la troppo battagliera Lacerba ('13-'15), la quale, dopo la direzione del Leonardo, la caporedazione del Regno ('03-'04), la condirezione dell'Anima ('11)), la direzione della Voce ('12), fu la sua impresa giornalistica più importante; né tanto con la sua adesione al Futurismo, o le sue feroci stroncature; quanto piuttosto con le opere di poesia, sbocciate poco prima della guerra, e durante.
   Lacerba fece molto rumore; ma, in fondo, con quel suo programma, radicalmente avverso alla religione («in tutte le sue forme»), alla morale («con tutte le sue ipocrisie, finzioni e sopravvivenze»)alla tradizione («con tutto il pesante corteo di storie, venerazioni, culti, accademie, ecc.»); non fu che rumore di scandalo.
   Rumore fece anche l'adesione al Futurismo; ma qui, se rileggiamo gli scritti, raccolti nel volumetto L'esperienza futurista soltanto nel '20, ma composti nel '13-'14, dobbiamo riconoscere che, interpretando il Futurismo come distruzione, assalto, guerra contro l'accademia e la cultura ufficiale, liberazione dalle forme troppo usate e dalle tradizioni imbecilli, volontà dell'inedito e del domani, affermazione della sovranità della fantasia, Papini aveva ragione di dirsi, «in un certo senso, un futurista prima del Futurismo». Il che significa che la sua adesione non fu consigliata, come parve a qualcuno, da frenesia reclamistica, o peggio.
   Né, al buon nome dello scrittore, giovarono le stroncature, che, scritte dal '12 in poi, furono raccolte in volume, insieme con molti altri profili lusinghieri, appunto in Stroncature ('16). Ché, se qualcuna può sembrar giusta anche oggi, le più sono immeritate e, in tutt'i casi, troppo crudeli: ne ha convenuto lo stesso Papini; tant'è vero che, nelle successive edizioni, ne ha soppressa più d'una (ma non basta ancora). Quanto a me, alle stroncature preferisco di gran lunga i profili, benevoli, ma così intelligenti, e talvolta davvero rivelatori, di Spadini e di Serra,


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di Soffici e Palazzeschi, di Vannicola e Panzini, di Gourmont e Unamuno. L'antipatia aguzza certo le zanne di Papini, e gli fa scrivere pagine, non indegne di certe polemiche carducciane, e degnissime delle migliori di Fame usurpate e del Libro di don Chisciotte; ma la simpatia, l'amore, illumina meglio la sua intelligenza, scalda più cordialmente il suo stile, rivela meglio l'artista. Veggasi, oltre ai più bei capitoli di Stroncature di Testimonianze ('18), l'eccellente L'uomo Carducci ('18). Lo so: è, un po', un «ritratto immaginario»: il critico, sotto il riguardo dell'obiettività storica, avrebbe più d'una cosa da osservare. Ma, come ritratto d'artista, fatto da artista, è innegabilmente magnifico.
   A ogni modo, il nuovo, il migliore Papini, si rivelò durante la guerra con le opere di fantasia: non dico con Buffonate, pubblicato nel '14, ma composto di «pezzi» apparsi dal '07 al '13, dove riappare straccamente, con una punta d'ironia e di satira in più, e con tanto di mistero in meno, il funambolismo fantasista, paradossale e bluffista, che già era nel Tragico quotidiano e nel Pilota cieco; bensì con Opera prima, raccoglienti nel '17 liriche, primamente apparse sulla Voce nel '14 e '15; con Cento pagine di poesia ('15), e con Giorni di festa ('18).
   Opera prima contiene «venti poesie in rima e venti ragioni in prosa». Dimostrata la vanità delle distinzioni esteriori, e l'essenzialità della poesia, Papini ripudia tanto il versoliberismo, d'importazione francese, che abominava la rima e il ritmo regolare, quanto il futurismo, che proclamava la morte della sintassi e l'avvento delle parole in libertà, volendo insomma fare entrambi tabula rasa di tutta la tradizione poetica italiana. Egli, infatti, punta i piedi, e nelle «venti ragioni in prosa», a guisa di giustificazione de' suoi ritmi e delle sue rime, abbastanza tradizionali, sostiene che «la novità consiste nel portarci una sensibilità (e cerebralità e moralità) nuova; e nel rinnovare il vocabolario perché di parole (e non di segni tipografici) la poesia è fatta»; e preannunzia «un Classicismo nuovo, cioè senza modelli e precetti, che beneficierà di tutte l'esperienze, ricerche e conquiste dei romantici, parnassiani, simbolisti e futuristi; ma che sarà, in ogni modo, classicismo, cioè opera d'arte nuda, compatta, ipercosciente, costretta a una disciplina, sottomessa a salutiferi servaggi per ottenere potenze e libertà in più alto grado». Perciò, ben giustamente, sostiene la necessità del ritmo musicale, la convenienza e utilità della rima, l'opportunità di forgiarsi una propria lingua, particolarmente espressiva del proprio spirito, infine l'inevitabilità di far centro di se stesso, e di richiamarsi al mondo esterno, solo in quanto «accompagna, o esprime, o giudica, o richiama certi stati d'animo».
   Bellissimo programma, e significativo, specie se si bada alle date; ma che, ben s'intende, non poteva, di per se stesso, bastare alla creazione


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della poesia. La quale, in Opera prima, mi pare si realizzi pienamente. soltanto in quelle rime, che, senza troppe complicazioni o sottintesi cerebrali, anzi con la maggiore semplicità, cantano l'amore del poeta per la sua donna (I e XV), la bellezza della campagna e dell'universo (III), l'ebbrezza della solitudine contemplativa (VIII).
   Dov'è mai il Papini polemista e aggressivo? Dov'è il Papini dei saturatili metafisici? Dov'è il Papini delle fantasie paradossali e misteriose, pessimiste e bizzarre? Papini ha finalmente amato, s'è sposato, ha avute due belle e care bimbe; ed è giunto nel «mezzo del cammin...». Il suo spirito è placato. Cento pagine di poesia, è la piena espressione di questo stato d'animo.
   Poemetti in prosa, diciamo pure, pensando ai famosi Petits poemes en prose del Baudelaire, e de' suoi numerosi imitatori; e anche, un po', ai frammentisti in prosa poetica, che, quindici anni fa, erano ancóra in auge. Poemetti in prosa, dov'è tanta tenerezza per la moglie (La mia donna), e le bimbe (Le mie figliole); tanto affetto per le cose, che gli fanno compagnia e gli abbelliscono la vita (Il mio fiume, La mia strada, La mia stella); tanta felicità nella contemplazione, inebriata di spazio, di silenzio e di solitudine (I miei amici, Un giorno soltanto); infine, tanta brama, tanto ardore, tanta lirica, d'amore: «C'è un canto dentro di me che non potrà mai uscire dalla mia bocca; che la mia mano non saprà scrivere sopra nessun pezzo di carta... C'è un canto dentro di me che resterà sempre dentro di me... Questo canto non sarà detto che nell'ultima ora della mia vita; questo canto sarà il principio d'una felice agonia... Ma io non canterò mai questo terribile canto che mi consuma senza che nessuno abbia compassione del mio tormento. Io non canterò mai questo canto meraviglioso che la mia paura rinnega e che spaventa la mia debolezza. Io non canterò questo canto perché nessuno potrebbe sostenerne l'infinita, la straziante, la dolorosa dolcezza» (C'è un canto dentro di me).
   Sincerità, abbandono, prosa liquida e pura: «toscanità» essenziale, per la nitidezza delle immagini, il senso dell'armonia, la parsimonia del colore.
   Le quali caratteristiche si ritrovano in Giorni di festa, pur esso in prosa, ad eccezione della Preghiera a Michelangiolo, con cui si conclude e licenzia. Ma, qui, i componimenti sono assai più numerosi, che nelle opere precedenti; e bisogna scegliere. E poi, lo stato d'animo è cambiato: non c'è più la piena felicità, la perfetta serenità, ma una nuova, profonda malinconia, una sottile amarezza.
   Tristezza, per la necessità d'esser «sordomuto» («Ognuno di noi è sordo per volontà a quel che non si potrebbe ripetere; ed è muto perché non sa dire quel che fu tutta piena ricchezza ed ora è balbettio


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gemente, vergognoso della sua impotenza» - Discorsi col Sordomuto); nostalgia di tante cose perdute («Ogni stagione che passa, ogni annata, è una perdita nuova. Ho perso la gioventù degli anni e, peggio, la gioventù dell'avventura e della confidenza; ho perso gran parte della mia forza d'orso sdegnoso; ho perso la fede ne' prossimi e ne' lontani, negli amici e nei nemici, ho perso la divina imbecillità dell'amore; ho perso, perfino, quella caparbia speranza dell'altezza che mi confortava nell'asfissiamento delle bassure. Anch'io son l'uomo che va perdendo per tutte le strade quel che meglio fu suo». - Tutto perduto); amarezza di certi ricordi di fanciullezza (San Martin la Palma); senso desolato del tempo fuggente («Ora il tempo ha ripreso tutto; l'ombra mangia la luce, il giorno mangia la vita e s'approssima la grande notte che non avrà più mattina» - Soperchierie del Tempo); ricontemplazione accorata di tutta la propria vita, di là dalla tomba (Salvazione)...
   Forse lo spettacolo della guerra contribuì non poco a codesto ritorno e approfondimento di tristezza; certo, la dialettica dello spirito papiniano doveva portare, prima o poi, all'inappagamento della nuova tranquillità conquistata. Per ora, non sono che tristezze, rimpianti, sospiri... E la poesia è raggiunta, non soltanto quando lo scrittore si contenta di schizzare quadretti di vita campestre (Il rospo, Amore, Le more), e figurine svelte di fanciulle (Armilla) e di vagabondi (Un uomo libero, somigliante cosi stranamente a Charlot); ma anche, e soprattutto, quando sono espressi quegli stati d'animo, o direttamente, come nei componimenti sopra ricordati, o mediante immagini e visioni trasparenti. Bellissimo, tra quest'ultimi, Sogno di città.
   Il cerebralismo è superato; la contradizione tra pensiero e sentimento s'è risolta, col prevalere del secondo; il critico, il pensatore, l'uomo d'azione, hanno ceduto il passo all'affettivo, al contemplativo, e insomma al poeta.
   Ma il poeta è un uomo, che non può appagarsi di tranquillità e di pace; è uno spirito, che sente ancora la provvisorietà della sua conquista; un'anima, che, non essendo di puro poeta, ma di complesse e contrastanti esigenze, cerca ancora, magari inconsapevolmente, la Verità. Ed ecco, improvvisamente (o soltanto con l'apparenza dell'improvviso), la conversione al cattolicismo; e, con questa, una nuova fase, un nuovo periodo, nella storia spirituale di Giovanni Papini.

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   Confesso che l'atteggiamento di Papini, durante la guerra, non m'era parso chiaro. Meno ancora compresi poi, ritornato alla vita letteraria dopo la guerra, quella che fu chiamata conversione di Papini, preannunciata e proclamata, specialmente in occasione della Storia di


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Cristo ('21), a colpi di grancassa. Letto, anzi, questo libro, dubitai più che mai, della profondità del suo cattolicismo. Non era, infatti, un indizio di leggerezza, quell'aver voluto scrivere, appena conquistata la fede, il libro più terribile, a cui possa cimentarsi un'anima veramente religiosa e cristiana? Non era un indizio di superficialità, quell'aver d'un tratto accettato tutto il domma cattolico, tutta la tradizione ecclesiastica, tutta l'esegesi ortodossa, tutt'i miracoli, tutte le profezie? E in quel nuovo disprezzo e odio, in quelle nuove contumelie contro i non credenti, i non cattolici, non si rivelava forse la coscienza, ancor debole e torbida, di chi grida, per soffocare voci d'incertezza e di dubbio, risalenti da oscure, paurose profondità?
   Il libro mi parve dimostrasse chiaramente, nel suo atteggiamento e tono polemico, scarsezza di spirito storico, ossia d'obiettività e relatività; più ancóra, deficienza d'un'intima devozione, d'un profondo mistico ardore, specialmente nelle pagine della Crocifissione, ossia del momento più patetico; mancanza d'abbandono, anche quando s'invoca Gesù, poiché anzi Gli s'impone di ritornare fra gli uomini, di riapparire, in tutto il fulgore della sua potenza, all'intera umanità. Mi sembrò soprattutto che, in quell'opera, non si vedesse né sentisse la divinità del Cristo, solo riconoscendosi in Lui l'amore per la campagna e il nomadismo, la facoltà d'esprimersi poeticamente, la povertà e l'innocenza; né proiettandosi sulla Sua figura, nonostante i miracoli e le profezie rievocate, ombre di mistero, luci d'infinito.
   Oggi, a dieci anni di distanza, la papiniana accettazione del cattolicismo mi sembra assai meno sorprendente. A parte l'intervento misterioso della Grazia, dinanzi alla quale il critico non ha che da inchinarsi e tacere, riconosco che, rileggendo tutte le opere del Papini dei due decenni precedenti, sí possano vedere, abbastanza chiari, i preannunzi della Fede. — Il suo pragmatismo non era stato, infatti, colorato di misticismo e magismo? Il suo sogno più alto non era stato di diventare il missionario d'una nuova religione, il banditore d'una nuova Verità, il creatore d'un «uomo nuovo»? La sua negazione della filosofia non era fondata sulla fede della potenza del sentimento, anche come rivelatore immediato di verità? Non erano apparse spesso, anche nelle sue opere più scettiche e blasfematorie, pagine di rara comprensione sul fenomeno mistico-religioso? Non v'era stata, più o meno, in tutt'i suoi libri, la confessione d'un intimo tormento per la voluta, e non ancóra conquistata, certezza? Non s'era rivelato, particolarmente negli scritti d'arte e di poesia, un senso profondo del mistero universale, un sentimento traboccante d'amore per la natura e le creature?
   Quanto alla Storia di Cristo, essa continua a sembrarmi, nel complesso, un'opera né di scienza né di poesia, incapace di servire all'anima


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assetata di fede, piuttosto perifrastica e retorica, e quasi un'antologia di pezzi di bravura. Tuttavia, oggi sono meglio disposto a dar valore alle pagine belle, che sono tutt'altro che infrequenti: là dove sono analizzati certi stati d'animo (del convertito, del solitario, del discepolo); sbozzate certe figure (Ponzio Pilato); rappresentate certe scene campestri, o cittadine (il Parasceve); raccontate alcune parabole (il figliuol prodigo). E, dopo tutto, intimidisce sapere che quest'opera è stata tradotta, a tutt'oggi in trentacinque lingue... Non ha dunque avuto ragione Papini, a scrivere un'opera, non di ricerca scientifica, né teologica, né d'esattezza storica, bensì edificante e edificata, tale cioè da essere «un nutrimento appropriato all'anima, alle necessità del secolo e di tutti»? Non significa nulla, anche per i poveri miscredenti, esser diventata, questa Storia di Cristo, un'opera di divulgazione veramente mondiale?
   Purtroppo, alla Storia di Cristo Papini ebbe il torto di far seguire il famigerato Dizionario dell'Omo salvatico (in collaborazione con Domenico Giuliotti, 1923), ch'è un cumulo di spiritosaggini e volgarità, con qualche gemma di poesia e di cultura, di satira e di giudizio profondo. Il distacco della critica, e dello stesso pubblico, s'allargò: Papini se n'accorse, e però, mentre rinunziava alla continuazione del Dizionario, arrestatosi così alla lettera B, si rinchiudeva, per tre anni, nel silenzio. Seguirono Pane e Vino ('26), Gli operai della vigna ('29), Sant'Agostino ('29), Gog ('30); coi quali, dunque, il terzo decennio dell'attività papiniana si presenta non meno fecondo dei precedenti.
   Metto insieme Gli operai della vigna e Sant'Agostino, perché sono saggi, più o meno ampi, riguardanti santi e artisti, ossia «gl'imitatori d'Iddio e gl'imitatori delle opere d'Iddio»; saggi storico-letterari, «quasi tutti nati da un bisogno del cuore o dell'intelletto, e stesi con quella onesta volontà di libero apostolato, che ormai guida il suo lavoro». Ma, a dire il vero, tra i saggi del primo libro, quelli che sodisfano di più sono dedicati ad artisti e poeti, come Jacopone, Manzoni, Buonarroti, Giuliotti; e anch'essi c'interessano, non tanto per quel che dicono intorno a questi, quanto per quel che fanno intravedere intorno all'autore. «Noi non sappiamo — scrive, a un certo punto, Papini — per quali vie tornasse il Manzoni al Cattolicismo, ma teniamo per certo che furono intellettuali...». Non potrebb'essere, questa, un'involontaria confessione? «Un fondiglio di ferocia e di mala cupidità è in tutti noi, anche ne' più perfetti. In ogni uomo è un omicida: gli onesti son coloro che non fanno seguire l'atto al desiderio; i santi son coloro che, per mortificazione e gastigo, si obbligano ad amare quelli che potrebbero odiare». Relitto di pessimismo hobbesiano giovanile, o nuovo sentimento giansenistico e agostiniano sull'originale perversione


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umana? Ed ecco una chiara confessione: «E colui che scrive queste pagine più d'ogni altro si riconosce bisognoso di tali esempi e di tali lezioni, perché la sua vecchia natura, riformata ma non tutta distrutta dal beneficio sovrannaturale, lo porta troppo spesso all'acerbo corruccio verso quelli che non amano ciò ch'egli ama»...
   Un ampio e bel saggio è «Sant'Agostino»; ma, se bisogna ammirare la solita bravura papiniana, nell'esporre, raccontare e, qua e là, nel dar puntatine, e approfittare eloquentemente delle situazioni patetiche, mi sembra che, nel complesso, deluda, mancando alla raffigurazione della personalità agostiniana più d'un tratto essenziale, e nientemeno che tutta la storia del pensiero del Vescovo d'Ippona, e persino l'agostinianissima questione della Grazia. Restringersi alla sola vita esteriore e sentimentale, è stato, secondo me, un grosso errore.
   Più significativi e durevoli, in ogni caso, Pane e Vino, e Gog.
   Le rime di Pane e Vino (titolo evangelico, che mi ricorda una magnifica elegia di Hölderlin, Brod und Wein) sono preceduti da un eloquente «Soliloquio sulla poesia», dove, rivelata la mancanza nell'Italia contemporanea d'una vera poesia, e additatane la causa principale ed essenziale nella mancanza d'una forte fede, Papini mostra le varie storture estetiche e critiche, succedutesi negli ultimi anni, e finisce col proclamare che «la poesia non dev'esser soltanto suono e abbandono all'inconscio, anche se i suoni che la compongono anno all'orecchio un piacere armonico nuovo». Progresso teorico, su ciò che s'affermava in appendice a Opera prima: a cui corrisponde, se non m'inganno, anche un progresso poetico: giacché, se solo qualcuna delle rime di quel libro sodisfaceva pienamente, in Pane e Vino sono parecchie le poesie che ci convincono compiutamente.
   È però strano osservare che, mentre Papini, tra «i poeti della pietra e i poeti del miele, tra gli scogliosi e i frondosi», che, secondo lui, formerebbero le «due grandi tradizioni della nostra poesia», preferisce di gran lunga i primi, e, a suo modo, vorrebbe imitarli e continuarli; noi lo sentiamo assai più spontaneo e sincero, quando è più dolce e abbandonato, più tenero e quasi idillico, mettendosi appunto, senza volere, tra i poeti del miele. Così, in certi aneliti di purezza infantile (Arcadia); in certe elevazioni mistiche (Felicità irrimediabile, Domande al Signore); in certe lodi tenerissime per la sua donna e le sue creature (La Sposa, Viola, Gioconda): motivi non nuovi, questi ultimi, ma riscaldati da un fervore nuovo; motivi nuovi, i precedenti, e trattati con un senso del divino cristiano, quale non c'era occorso ancóra di notare.
   Analogamente, se si dovesse dire quale sia il capitolo più bello di Gog, non si stenterebbe a riconoscerlo nell'ultimo (Il pane della bambina),


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dove la purezza dolcissima e malinconica del paesaggio toscano si fonde mirabilmente con la soavità della pastorella e del suo dono, «così buono e ricco», di pane. Né con ciò s'intende negare la genialità di certe interpretazioni di grandi uomini contemporanei, come Ford, Gandhi, Einstein, Freud, Lenin, Edison, Shaw; né l'efficacia di certe satire dei costumi e delle idee moderne (egolatria, universale livellamento, imbestiamento, ecc.); né la magnifica potenza di certe visioni allucinanti, come La città abbandonata.
   Si vuol soltanto avvertire che il Papini più caratteristico della sua terza fase, è il buono, tenero, idillico Papini, pacificato col mondo e con se stesso.

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   Tre decenni d'attività instancabile; tre fasi di pensiero e di sentimento; due crisi violente e rinnovatrici... Chi può negare, in buona fede, a Papini, la forza dell'ingegno penetrativo e divulgatore, la potenza dello spirito polemico demolitore, la delicatezza e cordialità della poesia? Chi vorrà non riconoscergli una personalità ricca e originale, generosamente ambiziosa, e sostanzialmente desiderosa di bene, per sé e per gli altri? Chi pretenderà contestargli d'aver esercitata una reale influenza sulle nuove generazioni?
   Quanti Stürner and Drânger e neo-romantici, nei primo decennio del secolo, dopo Crepuscolo dei filosofi e Il tragico quotidiano! Quante autobiografie e autoconfessioni e «conti con me stesso», dopo Un uomo finito, nel secondo decennio! Quante conversioni al cattolicismo, nel terzo decennio, dopo Storia di Cristo!
   E quella sua prosa, tersa e flessibile, scarna, eppure eloquente e scattante come uno stocco; quella sua toscanità essenziale, e quel suo tradizionalismo terragno, antiscolastico e antiaccademico per eccellenza, epperciò tanto più genuino e vigoroso; non contano dunque più nulla? C'è da domandarselo, perché corre voce che ormai Papini sia «superato»; e, mentre — per una nemesi, di cui lo scrittore fiorentino deve essere l'ultimo a meravigliarsi — le stroncature fioccano intorno a lui, a ogni uscita di libro; i giovani e giovanissimi fanno i difficili, e affettano di prenderlo sotto gamba; e un autorevolissimo pensatore, a un'appassionata esortazione cattolica del Papini, ha risposto, semplicemente, con un'offesa.
   Papini ha avuti molti torti; ma ha avuti, ed ha tuttavia, tanti meriti, che non è giusto considerarlo come un sopravvissuto, e, per la terza volta, un uomo finito. E però vero che, se egli non si rinnova, rischia di darci libri stanchi ed inutili: inutili soprattutto alla sua fama.


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D'altra parte, se aveva ragione Panzini, quando una volta, a un suo modesto corrispondente, scriveva, non senza malinconica arguzia, che in Italia non è permesso stare per più d'un decennio alla ribalta letteraria; chi, come Papini, sta sul proscenio da quasi trent'anni, ha ormai oltrepassato ogni limite di sopportazione...

Luigi Tonelli


   NOTA. — L'editore Valtecchi di Firenze sta per ripubblicare in speciale edizione, con parecchie cose nuove (o non mai pubblicate in volume) e le vecchie limate e migliorate, le Opere complete di Giovanni Papini. Credo interessante darne il «piano» fornitomi cortesemente dall'Autore:

   PENSIERO: I. Crepuscolo dei filosofi (con aggiunte); II. Pragmatismo; III. L'altra metà; IV. Gli amanti di Sofia (saggi sui filosofi); V. L'animale politico (scelta di scritti politici).

   NARRAZIONE: VI. Tragico quotidiano e Pilota cieco; VII. Parole e sangue, Buffonate; VIII. Un uomo finito; IX. Gog.

   LETTERATURA ED ARTE: X. Stroncature; XI. Ritratti italiani (saggi su scrittori italiani antichi e moderni); XII. Ritratti stranieri (saggi su scrittori stranieri); XIII. Eresie letterarie (saggi su problemi letterari); XIV. Maschilità; XV. L'uomo Carducci; XVI. I Nipoti d'Iddio (saggi su artisti e su città).

   LIRICA: XVII. Poesia in prosa (Cento pagine di poesia, Giorni di festa) (con soppressioni e aggiunte); XVIII. Poesia in versi (Opera prima, Pane e Vino) (con due poesie nuove).

   RELIGIONE: XIX-XX. Storia di Cristo; XXI. Sant'Agostino; XXII. La Scala di Giacobbe (saggi su santi e scrittori cristiani).


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